“Cronache dalla terra di nessuno” di Maria Giovanna Massironi (Albaccara – Casa editrice, 2020 pp. 112 € 12.00) è una raccolta poetica intensa che assorbe dalla consapevolezza del dolore la linfa vitale e compassionevole della memoria. La poesia di Maria Giovanna Massironi accoglie testi arrendevoli al disagio emotivo e resistenti al vincolo della speranza. L’autrice genera, attraverso una persistente confessione quotidiana, l’apprensione del proprio stato d’animo, la sofferenza dei giorni e delle notti, scandita dall’irrequietezza dei pensieri, in balìa del segnale della frattura esistenziale. Coglie la lesione dell’anima, una ferita accompagnata dalla malinconica amarezza di ogni sospensione della vertigine e dal profondo tormento per gli incubi e i fantasmi che si aggirano, crudeli e magnetici, nella sua mente. Maria Giovanna Massironi abita la terra di nessuno, il territorio conteso dai timori e dalle incertezze del vivere, il non-luogo della fluidità sensibile, il confine interpretativo della propria identità. Il libro confessa la rapida e spontanea evidenza dello smarrimento emozionale, sintonizza il fruscio segreto dell’umore, il silenzio nascosto dell’inadeguatezza. I testi, solo apparentemente frammentari, elaborati con la lealtà dell’impulso, donano il senso compiuto e graduale di una scrittura senza impedimenti, la libertà sincera di una funzione liberatoria, la capacità creativa di orientare le energie soffocate dall’affanno della perdizione. “Cronache dalla terra di nessuno” esprime una forma di premonizione istintiva, avvinta alla soglia del mondo interiore e all’esperienza delle sensazioni, collega l’ipotesi indefinita e disorientante delle difficoltà al riscatto di un orizzonte vagheggiato, varca la soglia della malinconia osteggiando l’inquietudine. Maria Giovanna Massironi resta “in limine”, sulla soglia dell’espressione, dona al lettore il suggerimento sentimentale per affidare alla vita sempre una straordinaria opportunità di rivendicare il proprio tempo. L’occasione letteraria di sollevare le proprie riflessioni evidenzia il privilegio di tradurre l’oggettività delle pagine dense di significato, di comprendere l’avvicendarsi degli eventi patiti, di condividere l’importanza del vissuto, la commovente e indecifrabile percezione della grazia. La poesia gratifica ogni ispirazione individuale, estende la consistenza del respiro universale, sfiorando la complicità della resistenza. La provvisorietà di una bruciante esistenza collega l’influenza dei versi, disgiunge la frattura dell’anima, il duro scontro inevitabile con la realtà, coglie la complessità delle vicissitudini, l’enigma delle illusioni. La poetessa, con uno stile originale, convincente e attuale, segue sempre l’eco di una psicologica attenzione al monito della coscienza, nell’individuare la riparazione del torto, nel consolidamento temporale dello spirito.
Rita Bompadre – Centro di Lettura “Arturo Piatti” https://www.facebook.com/centroletturaarturopiatti/
Notte dieci. Giorno undici.
La notte appartiene agli ubriachi
e l’alba conserva
il suo splendore di albicocca.
La rivoluzione resterà un sogno
perduto nelle chiacchiere de mattino.
Voce d’argano e ruggine
viene dal mare e vi si perde.
Non il velluto, ma la ruggine
ha invaso ogni cosa.
Ci ha preso cuore e cervello.
Nervi e sangue.
Al richiamo di quella voce
abbiamo inseguito chimere
e mille volte siamo morte.
Nel giorno undici
non c’è posto per noi.
Stiamo come in porto
a tagliare pomodori,
a prua della nostra
piccola casa rosa.
Solo le zanzare sono tornate.
Notte trentuno. Giorno trentadue
Nella notte abbiamo perso un calzino.
Il destro per l’esattezza.
Pensando di fare bene
ci siamo tolti anche il sinistro
e abbiamo sbagliato.
Alle ore 5,28 siamo completamente
svegli con tutta la nostra disperazione
e i piedi gelati.
Sotto le finestre, niente storie
di lupi e di pirati.
Il cielo è azzurro e le strade sono deserte.
Niente ci consola.
Il giorno trentadue inizia
pieno di ansie e preoccupazioni.
Spegniamo la radio.
Ci sono cose che
non si possono più ascoltare.
Notte quarantatré. Giorno quarantaquattro
Il buio non finisce mai.
Attraversiamo la città,
camminando sotto la pioggia.
I tetti sono lucidi
e noi siamo bagnati fino alle ossa
come le nostre carte
e i libri che portiamo a tracolla.
Sono bagnati i quaderni con le copertine
di cartoncino leggero che si slabbrano
e si abbandonano ad un’onda molle e pendula.
Siamo svegli dalle cinque.
Piove e non fa freddo.
Le nostre scarpe non tengono più la pioggia
e l’acqua arriva fino alle caviglie,
gonfia le calze che resteranno umide per ore.
L’ombrello ci avvolge floscio
e ci rende difficile vedere
dove mettiamo i piedi.
La tracolla ci taglia il respiro.
Tosse e fuoco nel petto.
Torniamo a casa
cercando una fuga
tra i buchi del selciato
che sono piccole voragini
di terra e sassi.
Nel giorno quarantaquattro
qualcuno si è preso la sua piccola vendetta.
I nani hanno lasciato il giardino
e con le scarpe infangate
sono entrati in casa
sporcando dappertutto.
Notte cinquantotto. Giorno cinquantanove.
Che parole usare nel giorno più buio?
Tronche? Piane? Sdrucciole? Bisdrucciole?
Piane, con cadenza di adagio.
Rassicuranti e confortevoli parole piane.
Casa. Libro.
No certo caffè oggi.
E neppure gioventù
e meno che meno libertà.
Le parleremo tutte piane.
Sommesse, quasi silenziose.
Piano. Piano. Forte.
Il presente è all’improvviso tronco.
Ricorderò.
Ricorderemo estati perdute.
Le città sul mare. I caffè turchi. I sogni.
I tuoi occhi bellissimi.
Le domeniche a san siro.
Le luci in galleria.
La sabbia umida. Le partire a pallone.
La salita ai bottini. Gli ulivi. I gatti.
Suonare insieme alle vocali.
Per una volta guardare indietro.