a cura di Maria Antonietta Schiavina
“Il talento di essere nessuno”, un’autobiografia speciale appena
uscita per Sperling & Kupfer. Un libro che si legge in un fiato.
Che appassiona, commuove, insegna. E’ la storia di una vita, di
una famiglia, della professione, ma è soprattutto un quadro di
un’Italia che è stata, e di un’altra che ancora è, nonché di un
dramma, con la malattia genetica della figlia Luna, che Luca
Ward, insieme alla mamma della piccola, ha affrontato con
grinta e con amore, senza mai piangersi addosso, ma cercando
soluzioni. Grande doppiatore e bravissimo attore, Ward, è la
voce più riconoscibile del panorama italiano. E a sessant’anni si
è messo a nudo per il suo pubblico.
Perché l’idea di scrivere una biografia?
“È stata Mondadori a chiedermelo. Mi ha visto in Rai, durante
un’apparizione televisiva. Ero in promozione per un musical,
raccontavo un’esperienza passata, legata alla separazione dalla
mia prima moglie, Claudia Razzi. E parlavo della mia prima
figlia, Guendalina”.
E il racconto ha fatto breccia.
“Sulle prime, non ho capito bene il senso dell’invito della casa
editrice. Ho chiesto: “Ma perché dovrei scrivere?”.
“Perché riteniamo che la tua storia possa essere d’aiuto a tanti”
,mi hanno risposto. Allora, ho cominciato a pensarci. Io sono
venuto dal nulla, sono cresciuto in povertà, figlio di attori non
blasonati, quando essere attori non blasonati era un guaio. Ho
pensato alla malattia di Luna, e ho capito che, forse, avrei
potuto dare una mano a chi ha attraversato i miei problemi, ma
anche ai giovani che pensano solo al successo e non al merito”.
Il libro è dedicato “A tutti quelli che credono di non farcela”.
Lei ce l’ha fatta e ce la sta facendo.
“Davanti alle avversità ho sempre tirato fuori una grande forza.
E la forza serve più di ogni cosa nella vita”.
Nel libro, racconta la malattia genetica di sua figlia Luna,
affetta dalla sindrome di Marfan. Cosa le ha insegnato sulla
ricerca?
“Ho capito che per le malattie non considerate di impatto la
ricerca è ferma. Alcuni ricercatori, ormai amici, mi hanno detto
di non avere nei propri laboratori i reagenti necessari ad andare
avanti. E questo è gravissimo. La salute è fondamentale, e la
ricerca, lo abbiamo visto anche con il Covd, è il perno attorno
al quale ruota oggi l’umanità”.
Cosa pensa stia facendo lo Stato per lo spettacolo dopo la
pandemia?
“Poco. Nel nostro settore siamo oltre due milioni e il 90% non
sa come sbarcare il lunario. I cinema e i teatri sono stati
abbandonati, ma l’Italia si riempie la bocca della parola cultura,
mentre non sa neppure cosa sia”,
Lei è stato un garzone in una ditta di traslochi, ha fatto il
camionista, ha venduto bibite e fatto di tutto. Quando ha deciso
di essere un attore e doppiatore a tempo pieno?
“Mio padre, che era attore come mamma, è morto nel 1973
quando io avevo solo13 anni. Non ho potuto proseguire gli
studi, avrei voluto fare il pilota di aerei civili. Ma ho dovuto
lavorare per mantenere la famiglia. Poi sia io che i miei fratelli
abbiamo cominciato a fare doppiaggio, perché è un lavoro
senza compromessi:o sei capace o ti buttano fuori.
“ Si ma con grande fatica. Quando ho fatto il provino per Elisa
di Rivombrosa, Mediaset credeva non potessi recitare. “È solo
un doppiatore”, dicevano quelli del casting”.
Non ha frequentato accademie
“Niente di niente, ma girare 25-30 scene in un giorno, come per
“Centro Vetrine” e mandare a memoria ottanta pagine di
copione, parlando in modo chiaro è più che una scuola”.