Un racconto sulla diversità. Una storia familiare autobiografica narrata con coraggio e delicatezza. “Come quando eravamo piccoli”, esordio alla regia di Camilla Filippi (già interprete di film, serie tv e autrice del romanzo “La sorella sbagliata”) presentato oggi, venerdì 18 ottobre, ad Alice nella città, la sezione autonoma e parallela della Festa del Cinema di Roma diretta da Gianluca Giannelli e Fabia Bettini, è un documentario che segue la vita di Zio Gigio, reso invalido da una lesione cerebrale da forcipe che, dopo 42 anni da lavoratore di categoria protetta va in pensione.
“La pensione è un momento molto complesso per chiunque, una rottura, un cambiamento drastico – spiega Camilla Filippi – a maggior ragione per lui. Quando ho saputo che avrebbe lasciato il suo lavoro, ho capito che era arrivato il momento di passare dietro la macchina da presa per raccontare come la convivenza con una persona con disabilità ci abbia regalato occhi diversi per guardare il mondo. Il documentario, prodotto da Lungta Film e presentato nella sezione Panorama Italia – Proiezioni Speciali, segue la vita di zio Gigio negli ultimi giorni della sua routine lavorativa e quella dei suoi unici parenti, i nipoti Camilla e Michele. Tra salti nel passato e riflessioni su quello che zio Gigio avrebbe voluto avrebbe voluto fare e non è potuto essere, i nipoti Camilla e Michele decidono di fargli un regalo: un viaggio che permetterà a tutti di fare i conti con un passato da troppo tempo rimasto in sospeso e un futuro da immaginare. “In un mondo in cui vige la tendenza a raccontare la verità con morbosità, ho scelto di fare un passo indietro e di raccontare tutto con pudore” – afferma Camilla Filippi. “Certe cose si vedono – prosegue – altre cose si dicono, ma tante altre ancora passano attraverso i silenzi e gli sguardi”. E aggiunge: “Avrei potuto essere molto più cruda rispetto alle difficoltà di mio zio e non l’ho fatto, perché questo avrebbe portato il film in una direzione che non mi interessava affatto mentre volevo fare un film sul senso profondo della famiglia, un film che trovasse nelle radici di quello che ognuno di noi è, la sua universalità”.
“Come quando eravamo piccoli” diventa così un piccolo saggio di cinema-verità, uno sguardo autentico sull’altro, puro, naïf, capace di cogliere la vita nel suo farsi e di mostrare come anche “in un’epoca fortemente individualista è possibile essere sensibili verso l’altro senza smettere di pensare a sé stessi”.
In questo racconto, Filippi non solo non teme di mettere a nudo i propri sentimenti, le sue fragilità e i suoi dubbi, ma sceglie di apparire sullo schermo con semplicità, spettinata e senza trucco. “Ho voluto mettere la verità della storia prima della mia immagine di attrice – rivela – e ho amato molto farlo”. Ispirata dal cinema di Ken Loach e dei fratelli Dardenne, come lei stessa ammette, sottolinea: “Certi racconti hanno bisogno di vicinanza, di ‘sporcature’, di imprecisioni. A volte la macchina-cinema sembra troppo ‘grossa’, ‘pesante’ e spesso rallenta certi processi creativi. E invece andare avanti, non attardarsi a manipolare la forma, non dare lo stop per sistemare una scena o rigirarne subito un’altra senza pause, usando solo la luce naturale, grazie anche alla sensibilità di Emanuele Pasquet, il direttore della fotografia, mi ha permesso di essere più creativa e più libera”. Un’esperienza forte, quella vissuta da Filippi in circa un anno di lavorazione, dove ha imparato molto su sé stessa anche dal punto di vista professionale. “Per questa storia così personale dovevo necessariamente essere protagonista davanti alla macchina da presa e regista al tempo stesso. Questa esperienza mi ha permesso di comprendere la complessità per un’artista di avere il doppio sguardo, da un lato il dover ricercare l’autenticità di colui che è chiamato a far vivere davanti alla macchina da presa emozioni senza manipolarle in alcun modo, dall’altro la responsabilità propria del regista che ha invece il compito di raccontare la visione complessiva della storia, anche a costo di tradirne, in alcuni momenti, l’autenticità. Se c’è una cosa che mi porto a casa con certezza – conclude – è la libertà di voler sperimentare come attrice l’essere diretta da altri e dedicarmi alla regia quando sento il bisogno di raccontare storie che voglio guardare da fuori. Non a caso sto già lavorando sul nuovo copione dove sono regista ma non sono interprete”.
Con quest’opera prima presentata in anteprima ad Alice nella città, Camilla Filippi si aggiunge alla piccola ma importante schiera di attrici italiane passate recentemente dietro la macchina da presa dopo Cortellesi, Ramazzotti, Buy e Smutniak. “È necessario che ci siano sempre più storie osservate con una sensibilità diversa, una sensibilità femminile che non ha niente a che fare con la parità di genere – commenta – ma con problematiche e necessità diverse che devono essere raccontate. Ciò che va invece al di là del genere è l’arte – ricorda Filippi – e un’attrice e un attore devono essere liberi di usare linguaggi diversi, di poter passare dal cinema, al teatro, alla pittura, liberamente senza dover essere necessariamente incasellati in un ruolo”.